Giornale dell'I.T.I.S. "G. Cardano" - Pavia

---

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA: L’EMOZIONE RACCONTATA DA CARLO ARNOLDI

Ultima modifica: 4 anni fa

Tempo di Lettura
~ 7 minuti
Valutazioni: 1
| Media: 4

In occasione della giornata nazionale delle vittime di terrorismo, la nostra classe ha incontrato in streaming Carlo Arnoldi, un uomo che ha perso il padre all’età di 15 anni nella clamorosa strage di Piazza Fontana. Questa terribile strage, avvenuta il 12 dicembre 1969 nel centro di Milano presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura,  causò 17 morti e 88 feriti e tra i morti c’era anche il padre di Arnoldi, il quale ha generosamente accettato di condividere con noi il racconto di quel tragico episodio e successivamente ha anche risposto ad alcune domande relative alla morte del padre e all’associazione di cui ora è presidente: l’Associazione Familiari Vittime di Piazza Fontana. L’incontro ha rappresentato una grande opportunità per noi, in quanto abbiamo potuto conoscere un ex studente (che ha frequentato l’ITIS Cardano di Pavia) che porta una testimonianza molto importante, per la nazione intera.
L’incontro è iniziato con un discorso introduttivo di Arnoldi, che ha voluto spiegare come è avvenuto l’atto terroristico e il clima politico confuso e rovente di quegli anni, ma anche darci maggiori informazioni sulla figura paterna. Il padre di Arnoldi era un agricoltore, che aveva sempre coltivato anche la passione per il cinema. Infatti nel 1952 decise di farsi liquidare dall’azienda di famiglia per aprire un cinema  e realizzare il suo sogno. Però in quegli anni si assistette alla nascita e all’affermazione della televisione e quindi il cinema veniva frequentato sempre più raramente. Nel 1961 nacque la sorella di Carlo e quindi il padre, che rappresentava l’unico sostegno economico della famiglia, dovette riprendere l’attività di agricoltore e affiancarla alla gestione del cinema.

La mattina del 12 dicembre il padre non avrebbe dovuto recarsi a Milano, perché non si sentiva molto bene. Ma fu costretto a prendere ugualmente questo impegno, a causa della chiamata di un agricoltore di Lodi che lo supplicava di andare. Quel giorno avvenne la terribile disgrazia per la famiglia di Carlo Arnoldi, che all’epoca era ancora un ragazzino ma dovette a diventare un uomo, per badare alla famiglia. Infatti incominciò ad alternare all’attività scolastica l’attività lavorativa presso il cinema di famiglia. Grazie soprattutto alla caparbietà della madre, Carlo riuscì a terminare i suoi studi. In seguito, con il supporto dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), venne fondata l’Associazione familiari vittime di Piazza Fontana, di cui fanno parte sia i parenti delle vittime che persone “estranee” alla strage. Gli associati parteciparono ai vari processi, che si tennero in diverse zone d’Italia, a carico degli anarchici, dei militanti legati ad Ordine Nuovo, un gruppo politico di estrema destra che voleva sovvertire l’ordine pubblico, e di una parte deviata dei servizi segreti che, secondo la testimonianza di Arnoldi, probabilmente erano a conoscenza dei piani per la strage. Nella lunga vicenda processuale vennero assolti  gli anarchici e condannati all’ergastolo i terroristi di estrema destra. Il 3 maggio 2005 a Roma però, tutti coloro che erano stati arrestati, vennero assolti per insufficienza di prove. Durante il funerale, ha ricordato Arnoldi in conclusione dell’incontro, il silenzio composto delle migliaia di persone intervenute fece capire che il Paese non si sarebbe piegato al ricatto della violenza né avrebbe tollerato una deriva antidemocratica.

Di seguito riportiamo l’intervista fatta a Carlo Arnoldi che ci ha permesso di comprendere maggiormente le conseguenze della strage di Piazza Fontana.

Com’è cambiata la sua vita dopo la morte del padre?
“Avevo 15 anni e mi sono trovato a dover diventare un uomo. Continuare la scuola non è stato facile. Mi ricordo che il primo mese dopo la morte di mio padre non volevo più andarci, perché, nonostante cercassi di reagire ed andare avanti, non era semplice. Grazie al sostegno di mia madre, sono riuscito a finire gli studi e a diplomarmi nel 1973. Successivamente ho iniziato a lavorare nel cinema di famiglia che è andato avanti per 10 anni, poi l’abbiamo chiuso. Mia madre si è dimostrata una donna molto forte, infatti a 39 anni ha preso la patente e ha iniziato a lavorare per mantenere la nostra famiglia. Inizialmente faceva l’operaia alla Galbani a Corteolona e poi, qui a Pavia, ha trovato un impiego presso il Policlinico.”

C’è qualcuno che potrà portare avanti la sua lotta e la sua associazione quando lei non potrà più farlo?
“Fortunatamente possiamo contare sulla presenza di alcuni giovani all’interno dell’Associazione. In particolare ci sono i figli di alcuni associati che sono ben preparati per portare avanti la nostra causa. Ci sono anche persone che non sono parenti delle vittime della strage, come ad esempio Benedetta Tobagi, Federico Sinicato, Ilaria Moroni e altri, che in futuro faranno di tutto perché quella mattina del 12 dicembre non venga mai dimenticata.”

Viste le difficoltà riscontrate durante le indagini, il suo gruppo ha indagato autonomamente per trovare i colpevoli?
“No, ma abbiamo partecipato a diversi processi. Vi posso assicurare che ho visto parecchi politici in quelle aule e vi posso dire che tremavano nel rispondere “non lo so” oppure “non mi ricordo”. Questo ci innervosì parecchio, perché era evidente che una parte dello Stato non voleva rispondere alle nostre domande. Io credo che i servizi segreti non volessero che ci fosse una strage, ma i terroristi di estrema destra sicuramente sì.”

Avete ricevuto intimidazioni o minacce da parte dei gruppi terroristici?
“No, non abbiamo mai ricevuto minacce, anche perché non abbiamo mai avuto niente a che fare con loro. Eravamo tutti parenti delle vittime della strage, ma partecipavamo ai processi semplicemente come spettatori e non facevamo mai nomi. Il nostro obiettivo non è mai stato “fare politica”, ma abbiamo sempre e solo voluto raccontare la verità sulla strage di Piazza Fontana, così com’è stata raccontata dalla giustizia italiana. Vi consiglio di leggere il libro di Benedetta Tobagi: “Il processo impossibile” che racconta in maniera precisa i fatti di quel periodo.”

Che cosa hanno portato alla società le stragi di quel periodo?
“Sicuramente hanno portato la società in un clima di paura e terrore. Oltre alla strage di Piazza Fontana ci sono state altre stragi in quel periodo ed erano tutte diverse tra loro. In particolare quella in cui mio padre ha perso la vita voleva portare a un colpo di Stato”

Nel 2005 c’è stata la delusione del processo. Come avete trovato la forza di portare avanti la vostra “missione”?
“Nel 2005 io e gli altri associati ci sentivamo sconfitti, perché non si riusciva a individuare il colpevole. La forza di portare avanti il nostro obiettivo l’abbiamo trovata spontaneamente, perché ci è sembrato giusto delineare una verità storica da rivolgere ai giovani per far capire a cosa poteva condurre la strage di Piazza Fontana nel paese. Abbiamo  iniziato ad andare nelle scuole a parlare di ciò che le nostre famiglie avevano vissuto e grazie al MIUR abbiamo portato avanti il nostro compito. Tuttavia tanti familiari delle vittime si sono rifiutati di partecipare a questo progetto,  probabilmente perché  non hanno la forza di raccontare la loro storia: raccontarla ogni volta è un po’ come riviverla”

Come si è comportato lo Stato italiano negli interessi delle famiglie vittime delle stragi? Cosa ha fatto?
“Bella domanda.. dico solo che mio padre è morto nel 1969, e la prima legge in favore delle vittime è stata promulgata solo nel 2004, quindi lo Stato non ha potuto darci una mano direttamente. Dopo la morte di mio padre, mia madre ha dovuto ricoprire il suo ruolo, aumentando i turni di lavoro per garantirmi la possibilità di continuare a frequentare la scuola visto che non voleva che io lasciassi subito per andare a lavorare; ma dopo il diploma anch’io ho iniziato con qualche lavoretto, ad esempio a dirigere il cinema di famiglia, nonostante avessi scarse abilità data l’età giovanile. Sicuramente se lo Stato si fosse interessato subito a noi, avremmo potuto avere una vita più tranquilla, ma ce l’abbiamo fatta lo stesso.”

                          Giacomo Bertani, Matteo Morello, Andrea Yachaya,
5CI, ITIS Cardano

Due vittime innocenti a confronto: il papà di Pascoli e il papà di Carlo Arnoldi

Ruggero Pascoli era il padre del poeta Giovanni Pascoli, amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia, assassinato, ufficialmente da ignoti, nel 1867. L’omicidio fu opera probabilmente di criminali o di estremisti politici, assoldati da un rivale di lavoro, malavitoso del luogo. La tragica vicenda di Ruggero e della sua famiglia influì pesantemente sulla psicologia del poeta e della sua famiglia.

La sera in cui venne assassinato, Ruggero stava tornando a casa da Cesena quando, all’altezza di San Giovanni in Compito, presso Savignano, venne ucciso con una fucilata sparata da due sicari ignoti, appostati lungo la strada. Morì sul colpo.

Era il 12 dicembre del 1969 e l’orologio segnava le 16.37 quando una bomba con sette chili di tritolo esplose nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano.

Carlo Arnoldi, di Magherno, aveva 15 anni quando seppe che quel giorno tra i morti c’era anche suo padre Giovanni, ucciso nell’esplosione all’età di 42 anni, insieme ad altre 15 persone.

Tra i due avvenimenti ci sono delle analogie: la prima, sostanziale, è il modo in cui i due padri sono morti, ovvero una morte inaspettata, fulminea, con la famiglia che aspettava invano il loro ritorno a casa, che disgraziatamente non sarebbe mai avvenuto.

Il secondo è lo scopo: i colpevoli sono arrivati ad uccidere persone innocenti e a distruggere delle famiglie pur di vedere realizzare i propri piani.

La terza analogia sono le condizioni in cui hanno lasciato le due famiglie. In tutte e due i casi nelle due famiglie si vennero a creare delle gravi difficoltà economiche che spinsero i membri a compiere molti sacrifici per poter vivere.

Purtroppo, in tutti e i due i casi, i colpevoli non vennero mai individuati sia per l’omertà della gente sia per l’inerzia delle indagini che portarono nelle due famiglie quel senso di ingiustizia bruciante, negando anche la possibilità di perdonare, dato che non c’erano né nomi né volti.

Nel caso di Ruggero Pascoli, nei pressi del luogo del delitto si trovavano poche altre persone, che testimoniarono senza giungere a niente di importante. Tra di loro Gino Vendemini, deputato, garibaldino e repubblicano, il quale scrisse in una memoria che l’assassino “rimane ignoto, almeno alle autorità”, volendo dire che la gente del luogo sapeva chi fosse il responsabile, ma taceva per paura o complicità.

Mentre nel caso di Giovanni Arnoldi la situazione fu ancora più grave, dato che furono proprio alcuni componenti del governo italiano a cercare di insabbiare la cosa, fino ad arrivare al 3 maggio 2005 in cui i principali tre imputati vennero assolti e addirittura le spese processuali furono addebitate alle famiglie delle vittime.

Ma cosa più importante che unisce le due famiglie è come i figli Giovanni Pascoli e Carlo Arnoldi hanno reagito alle due disgrazie, cercando di portare le proprie memorie ai giorni nostri, mostrandoci il dolore con cui hanno saputo convivere e combattere, riuscendo a prendere conoscenza del valore eternante della parola come venne affermato da Foscolo all’interno della sua opera “Dei sepolcri”, poiché la pietra del sepolcro con il tempo si sgretola mentre la parola no, è eterna e non potrà mai perdere valore.

Michel Myftaraj,
5CI, ITIS Cardano

Valutazioni: 1 | Media: 4

Nessun voto finora, Sii il primo a votare!

Leggi anche...
Senz’altro questi tre mesi di quarantena mi hanno dato tempo…
Home
Cerca
Articoli
Inserti
Archivi
Chi Siamo