Il 27 febbraio 2017 Dj Fabo ha realizzato l’ultimo desiderio: spegnere la sua vita dopo mesi di agonia e sofferenza. Lo ha potuto fare ma in territorio svizzero, non nella terra che lo ha visto crescere ed affermarsi: no, in Italia non sarebbe stato possibile! Invece a solo 5 ore di viaggio da Milano, a Pfäffikon, c’è un luogo nel quale un uomo ha la libertà di decidere fino in fondo, anche nella scelta estrema. Non a caso la clinica in questione si chiama “Dignitas”, parola che deriva dal latino dignus che significa degno, meritevole. E cos’è la dignità se non l’intima, indimostrabile nobiltà dell’uomo, pilastro su cui si fonda l’intera costruzione del formidabile castello dei diritti civili, della vita civile, della civiltà?
La dolce morte ha un costo di circa 10 mila euro e una durata complessiva di 20 minuti. Per accedere all’operazione sono necessarie due condizioni: la prima è la volontà del paziente di procedere; la seconda è la sua volontà di intendere e volere. Dj Fabo si trovava nella condizione per la quale non era in grado di muovere le parti del corpo dal collo in giù, aveva perso la vista e trascorreva ogni giornata nella sofferenza. Lui stesso si considerava un cervello attaccato ad un corpo che non gli ubbidiva e non vedeva più.
In Italia tale procedura è tuttora illegale e non si prospetta in un futuro prossimo la possibilità che il parlamento approvi una legge per rendere lecita l’eutanasia. Sono tanti i motivi che ostacolano la scelta: lo scontro con la Chiesa e i cattolici e gli alti costi economici. Nel mondo eutanasia o suicidio assistito sono possibili in diversi paesi: l’eutanasia è legale in Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo; il suicidio assistito è lecito in Svizzera, Oregon, Vermont, Montana e California; l’eutanasia passiva è ammessa in India, Canada, Messico, Australia.
Il mondo è diviso tra chi approva e chi condanna queste pratiche. Da un lato chi è favorevole pensa che non sia giusto far vivere una vita in condizioni di estrema sofferenza e dipendenza dagli altri (nel caso di Dj Fabo neanche potendo vedere i propri cari) a volte costringendo a continuare una vita che non vuole essere vissuta. In risposta, chi è contro sostiene che la vita è una sola e va vissuta in ogni caso fino in fondo; che bisogna poi avere fiducia in Dio e/o nella medicina che può aiutare questi sfortunati pazienti nella loro difficile condizione.
A nostro parere è difficile prendere una posizione perché ci sono obiezioni all’una e all’altra opinione. Come poter dire a chi soffre e non ha speranza, in quanto malato terminale, di avere fiducia nel progresso della ricerca scientifica e di saper aspettare nel silenzio e nell’ombra della propria stanza d’ospedale? Perché togliere il diritto all’autodeterminazione? Come trattare i pazienti che hanno perso ogni capacità di intendere e volere? E ancora: è accettabile il principio di rimettere completamente nelle mani degli uomini la decisione di dare e togliere la vita, nonostante sia colmo di implicazioni di natura etica e giuridica? Il divieto di uccidere non dovrebbe rimanere alla base di ogni società democratica e rappresentare una garanzia di tolleranza e apertura verso gli uomini e soprattutto verso i più deboli?
Alla luce di queste domande capiamo la difficoltà, non solo per il legislatore ma anche per l’uomo comune, di prendere una posizione definitiva e netta su una tematica così complessa e complicata. Allora rimandiamo alla coscienza di ognuno di noi la terribile domanda se sia giusto procurare la morte anche se allo scopo di togliere il dolore.